Leccornie esotiche e originali, ma in scatola… sarà tutto vero? Per esempio, il caviale…

Sarà anche vero, come sento spesso affermare, che per gustare meglio il caviale ci vorrebbe l’ottava meraviglia del mondo e cioè lo Champagne. Un motivo ci sarà senz’altro, però questo abbinamento l’ho provato più volte e non mi ha mai soddisfatto. Nessuna delle due prelibatezze esalta i profumi e i sapori dell’altra e nemmeno li copre. Allora perché? Mi è sempre venuto il dubbio che alla base di questa indicazione della sommellerie dei galletti d’oltralpe ci sia fondamentalmente soltanto il loro smisurato sciovinismo.

I Russi, però, che di caviale se ne intendono perché queste uova di storione inscatolate provengono in maggior parte da casa loro e cioè dal mar Caspio (per la verità qualcosa ci arriva anche dall’Iran, ma non ci si può affidare agli abbinamenti locali perché laggiù dovrebbero essere astemi per via della religione islamica), ci bevono la vodka liscia e a temperatura ambiente. E il motivo è ben più solido del gusto personale dei cugini della ville lumiére sulle sponde della Senna. I Russi, infatti, usano la vodka non tanto per gustarlo, ma per digerirlo, perché il falso caviale è purtroppo all’ordine del giorno. Per questa sfiziosità che è diventata troppo presto di lusso, come per altri prodotti esotici inscatolati, non ci si può affidare all’efficienza dei NAS e alla professionalità dei ristoratori.

Il caviale, il cui nome deriva da kawior, o kaviar, come viene chiamata la femmina dello storione del mar Caspio, non è costituito altro che dalle sue uova, che vengono estratte dopo scrupolosi controlli di laboratorio sul pesce laggiù mantenuto vivo in meno di un’ora dalla sua cattura, sciacquate, setacciate, salate e inscatolate. Sembrerebbe dunque un prodotto sano, fresco, leggero, anche perché normalmente quello in commercio dovrebbe essere tutto certificato e la pesca dello storione dovrebbe essere regolata dalle direttive del Cites, l’organismo internazionale di controllo, visto che questo pesce è sicuramente in via di estinzione nelle acque del mar Caspio.

Ma non c’è limite alla stupidità umana e all’ingordigia della mafia russa, che in pratica affonda i suoi tentacoli in questo settore in barba alle severe leggi dei cinque Paesi dov’è sviluppato: Azerbaigian, Kazachistan, Russia, Tagichistan e Iran. Sulle sponde del mar Caspio c’è una regola che viene rispettata prima di tutte le altre, quella di chiudere gli occhi. Ai poliziotti viene fatta un’offerta di quelle che non si possono rifiutare: o mille dollari per girare i tacchi, o la vita. E numerose bande di bracconieri da molti anni possono tranquillamente fottersene delle quote stabilite per la quantità del pescato e delle modalità di tutela di questa specie di pesce che laggiù è avviata inesorabilmente verso la totale scomparsa, com’è nel caso degli storioni Sterlet, i preferiti dagli zar.

Il 90% degli storioni, infatti, vive nel mar Caspio e solo dalle varietà Asetra, Beluga e Sevruga si ottiene il pregiato caviale, il migliore dei quali è senz’altro quello iraniano, ma soltanto perché gli altri Paesi non possono garantirne una certificazione di qualità corrispondente al vero e ne lasciano appunto fiorire, volenti o nolenti, il contrabbando e le contraffazioni. Il Corano non scherza, fa tagliare le mani e almeno per quanto riguarda il caviale iraniano si può stare più tranquilli. In Russia, invece, di caviale nero Beluga legale non c’è praticamente più traccia nel mercato locale, tranne che i pochi allevamenti in cui si alleva questa specie, le cui uova vengono vendute allo Stato per essere reimpiegate nell’allevamento e essere restituite all’habitat naturale del Volga.

Un serissimo approvvigionatore di una catena di alberghi a cinque stelle di Varsavia, espertissimo in materia, cui mi ero rivolto per comprare del buon caviale da offrire agli ospiti di Enotime.it nel corso del pranzo dedicato ai Sapori dell’Est durante il Salone del Vino di Torino del novembre 2003, mi aveva dimostrato, caviale russo alla mano (o meglio, nel piatto), che non è tutto oro quello che luccica e che la vodka sarebbe sempre meglio bersela dopo averne mangiato, proprio come fanno i Russi, per sicurezza.

Succede infatti che i prezzi del caviale sono così astronomici che sul mercato non è tutto vero caviale quello che circola, anche se in confezioni certificate da qualche intraducibile certificato di chissà quale Ente di qualche parte dell’ex Unione Sovietica. Là non tagliano le mani a nessuno e la corruzione delle autorità è all’ordine del giorno, anche se i truffatori no la fanno franca proprio sempre, ma i numeri sono impressionanti. Pensate che soltanto nel breve periodo da maggio a settembre del 2015 in Kamchatka e nel territorio di Khabarovsk la polizia aveva sequestrato 830 chilogrammi di caviale di storione e circa una tonnellata di storioni provenienti dal traffico illegale.

Il caviale viene venduto in scatole di diversa grandezza che pesano 30, 50, 100, 200 o 500 grammi, oppure in banchi (le tipiche confezioni tra gli 800 e i 1.000 grammi). È molto facile che, soprattutto nelle confezioni più grosse, le parti meno accessibili al cucchiaino di perla o di osso dell’assaggio di prova, tipo quelle vicino ai bordi delle scatolette, non siano proprio le uova degli storioni Asetra, Beluga e Sevruga, ma quelle di altri pesci. Queste ultime vengono gonfiate e colorate con un’immersione più o meno prolungata in birre di qualità diverse per portarle alle stesse dimensioni e allo stesso colore di quelle del vero caviale, che invece vengono abilmente sistemate in certi punti della confezione e fatte degustare all’ignaro probabile acquirente.

Nello stesso modo è anche facile che anche il caviale degli storioni meno pregiati possa essere colorato in nero ed etichettato come Beluga (che è quello più prelibato, ricercato e dunque anche molto redditizio) anche quello degli altri storioni. L’Asetra fornisce un caviale di grana media e di colore nocciola, quello del Sevruga è fine e scuro, mentre quello del Beluga è di grana grossa e di colore tra il grigio perla e il grigio scuro, ma ci sono anche quelli di un’altra trentina di altri storioni (come i Siberiani, i Kaluga, i Cobice, ) che, se sono ben sistemati nella scatoletta, l’occhio inesperto non li distinguerà mai. È una tecnica simile a quella del gioco delle tre carte, dove soltanto la destrezza del truffatore stabilisce chi vince. Cosa che non si può fare con il caviale Almas, che è il più costoso di tutti, circa 40mila euro al chilo, tre volte il prezzo del caviale Beluga, perché le sue caratteristiche uova sono di colore bianco perla e quindi non si possono taroccare.

Per farla breve, quello che era stato offerto allora a Torino è costato di più, ma era vero caviale, però prodotto… in Italia! Sì, anche nel nostro Paese se ne produce un po’, negli specchi d’acqua più adatti allo storione oppure in appositi allevamenti estensivi e costantemente controllati, perché la Forestale e i Nuclei Anti Sofisticazioni dei Carabinieri non scherzano affatto e il loro prodotto è senza dubbio più sicuro. Cito, per esempio, due società del gruppo Agroittica Lombarda, la Sorione Ticino in provincia di Pavia e l’Agroittica ed Italian Caviar in provincia di Brescia, ma anche la Caviar Giaveri in provincia di Treviso, la Pisani Dossi nel parco del Ticino in provincia di Milano, l’Adamas Caviar in provincia di Cremona e altre valide imprese dalla qualità assicurata.

Lo storione è un pesce molto lungo, onnivoro e, se viene allevato correttamente, mangia certamente in modo più sano. Ci vogliono dieci anni per ottenerne il caviale. In Italia si fanno ecografie a ogni pesce all’età di 5 anni per capirne il sesso e si dividono i maschi dalle femmine. I maschi vengono macellati per la carne, mentre le femmine proseguono il ciclo almeno per altri 5 anni. Il ciclo di produzione delle uova è biennale o quadriennale e si estraggono quando non sono ancora mature e sono ancora tutte attaccate, come in un grappolo. Allora vengono separate con un setaccio, lavate e poi drenate. Quando sono asciutte, vengono salate manualmente con la tecnica malossol (in russo significa ”poco sale”) e infine confezionate in latte da 1 o da 2 kg per maturare per circa un anno, perdendo tutto il liquido in eccesso. Quindi si confezionano nei piccoli barattoli da pochi grammi per essere commerciate. Il caviale italiano è di una qualità tanto raffinata che se ne esporta quasi il 90%, soprattutto negli Stati Uniti, in Asia e anche in Europa, dove il maggior consumatore (ma guarda guarda!) è la Francia.

Chissà che non si accorgano di questa leccornia di produzione nazionale anche quei ristoratori che, sempre attenti a proporre le squisitezze più esotiche e originali, dovrebbero però approfondire meglio le proprie conoscenze sulle filiere delle varie produzioni, spesso non in linea con i criteri sanitari europei, nell’interesse della salute del cliente e (perché no?) della salvaguardia delle specie in via di estinzione.

Saranno certamente già diventati degli esperti nel distinguere i conigli dai gatti venduti senza testa e non ce ne saranno poi tanti che ancora non sanno distinguere le fette di piccole melanzane (con i relativi semini) dalle fette di porcini nei vasetti di funghi sott’olio, ma siamo pronti davvero a mettere la mano sul fuoco quando si tratta di prodotti importati in scatola, in bottiglia o in confezione? Quanto surini c’è nella polpa di granchio che arriva dall’estremo oriente? Quante passere di mare dell’atlantico ci sono nei sacchetti di pesce surgelato al posto delle sogliole mediterranee? Quanto vino c’è negli spumanti imbottigliati dalla maggior cantina della Polonia copiando una famosa etichetta nera russa invece di mosto concentrato rinvenuto in acqua e gasato artificialmente? Quanto olio di oliva di provenienza extracomunitaria è sbarcato per anni dalle navi nel porto di Brindisi per finire in alcune partite di olio extravergine di oliva made in Italy?

C’è stato perfino un sequestro di una consistente partita di funghi sott’olio provenienti dal Giappone e venduti con un’etichetta che richiamava a un prodotto di pregio di origine pugliese e lucana. Ma il resto della lista, che si allungherebbe a ogni riga, lo lascio volentieri intuire ai lettori. Affinché queste e altre bidonate non emergano ancora dai menu di certi ristoratori, almeno per non dover dubitare della loro professionalità (ne converranno anch’essi), non sarebbe meglio rimandarli periodicamente a scuola?

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